Mi aggancio all’intervento di De Anna, in particolare alla questione dei limiti della cultura politica del nostro movimento di allora, sui quali limiti vorrei capire come la pensate.
Se per movimento del ’68, intendiamo riferirci al decennio che arriva fino alla fine degli anni settanta, molto sinteticamente e spannometricamente possiamo individuare 3 fasi. Quella del movimento autonomo degli studenti vero e proprio, che temporalmente vive un paio di anni (‘68 e ‘69), quello della nascita dei gruppi rivoluzionari che si “impossessano” del movimento, ed infine quello della affermarsi dell’autonomia e dei gruppi che predicano la lotta armata che coinvolgono pesantemente il movimento del ’77 e ne sanciscono la fine.
La prima fase è quella è sicuramente quella più ricca ed originale non solo sul piano delle idee, ma anche della partecipazione di massa degli studenti. La democrazia diretta, la partecipazione, il confronto con tutti senza preclusioni ideologiche caratterizzano quel periodo; ricordo che noi a chimica durante la prima occupazione discutevamo lungamente con i primi embrioni di Cl e addirittura anche con i fascisti del FUAN.
Arrivano i gruppi, per noi AO, che portano nel movimento le vecchie ideologie marxiste-leniniste del secolo precedente in tutte le sue varianti, penso che da qui inizia la crisi del movimento e la sua progressiva perdita della dimensione di massa. Per noi di Scienze sopravvive qualche anno di più, in virtù del concetto di autonomia del movimento, che consente per un breve periodo l’esistenza di una organizzazione ancora relativamente autonoma del movimento degli studenti dalle strutture di AO, il CdA e i CdB. Il nostro movimento, con dimensione di massa reale, resisterà fino alla occupazione del ’71.
Devo dire che ripensando a quegli anni provo un certo risentimento nei confronti dei gruppi rivoluzionari dell’epoca, che mi paiono, ovviamente con il senno di poi, visto che ho militato attivamente in AO fino al suo scioglimento, i veri becchini del movimento.
L’incomprensione della democrazia, come valore fondante delle società e strumento di trasformazione e la concezione equivoca della violenza come levatrice della storia costituiscono i limiti più grossi dei partitini rivoluzionari, ed alimenteranno negli anni successivi i deliri dell’autonomia organizzata e favoriranno il passaggio di militanti dalle organizzazioni più estremiste alla clandestinità ed alla lotta armata.
Ricordo un episodio che mi pare emblematico di come la violenza era entrata nel DNA del movimento della fine degli anni ‘70. Andai a Bologna con alcuni amici e compagni nei giorni della lotta del movimento del ’77 contro la repressione, con la curiosità di chi vuol capire vedendo da vicino. Mi trovai a disagio per il clima di tensione che c’era nell’aria ed in particolare mi colpì un gioco di massa che si svolgeva la sera in piazza Grande. Alcune decine di giovani giocavano con un bastoncino fosforescente, che veniva lanciato da una parte all’altra dalla piazza, con relativo inseguimento, recupero e nuovo lancio. Dopo poco il gioco diventava di massa qualche centinaio di ragazzi si accalcava per raggiungere il bastoncino e rilanciarlo tra spintoni e grida, una specie di gioco del rugby, senza regole, giocato da una sola squadra ove l’obbiettivo di ciascun giocatore era di raggiungere ad ogni costo il bastoncino, insomma un tutti contro tutti. Ad un certo punto il bastoncino cade vicino a me, sto per raccoglierlo, quando mi accorgo che una massa di persone urlando corre verso di me, non mi resta che fuggire più rapidamente possibile per non essere travolto. Mentre ci allontaniamo dalla piazza io ed i miei amici ci chiediamo qual è il senso del gioco, che razza di modo di stare insieme è, non abbiamo risposte razionali, ma la convinzione che un ciclo lotte e di movimenti è arrivato al capolinea.
Guido (pepè)